Amore e vendetta di Simone Censi: un racconto per Salento in Love

Nel racconto di Simone Censi, Amore e vendetta, si delinea la possibile storia di una figura leggendaria della costa salentina, un capitano da cui omonima Palude. Un racconto che si ricollega per certi versi a un altro dei racconti del Salento in Love, dove si fa riferimento alla rupe della dannata, dai cui fatti avrebbero avuto origini le avventure del personaggio di Simone Censi.

Amore e vendetta
di Simone Censi

Se la leggenda narra che nei pressi della torre di Santa Maria dell’Alto c’è una rupe testimone di una giovane che per sfuggire agli scellerati desideri del Conte che ambiva alla sua prima notte, si gettò sconsolata tra gli scogli preservando l’amore al suo uomo, quello che non si narra è ciò che accadde al pescatore Corrado, suo sposo promesso.
Straziato dal lutto e consumato dalla vendetta, sottrasse con l’inganno un archibugio al suo amico Tonio, il cavallaro preposto alla Torre dell’Alto e si risolse a voler piantare una palla nell’occhio buono al Guercio di Puglia, che gli aveva causato tanto male.
Si appostò al crepuscolo nella boscaglia vicino al palazzo e attese per molto tempo il suo ritorno insieme alla scorta.

Ebbe tempo per maledire l’agitazione che gli faceva sudare le mani, la rabbia che lo faceva sobbalzare a ogni respiro, quel ramo sul quale era appollaiato che scricchiolava a ogni minimo movimento, quell’arnese che forse era difettoso e pure il vento che non smetteva di spirare, resta che quella palla, destinata al feroce tiranno, s’incassò nel cranio del povero cavallo di pura razza Conversano, forse l’unico che il Guercio veramente amava.

Il giovane in fuga, incalzato dagli sgherri, arrivò nel porticciolo dove aveva la sua barca e tolti gli ormeggi si diresse in mare aperto senza voltarsi, dando così l’addio ai suoi cari e alla sua amata terra.
Con la notte trapunta di stelle che leziose si specchiavano nel mare, oramai in salvo, si guardò alle spalle e stremato prima di perdere i sensi, vide la Torre dell’Alto illuminata dalla luna e gli sembrò di vedere la sua amata vestita da sposa, inginocchiata su quella rupe dannata.
Il risveglio non fu dei migliori perché la sua imbarcazione era accostata a una fusta di corsari di Biserta di ritorno dalle razzie a Leuca e Castrignano.
Non comprese molto, ma capì che in quella lingua sconosciuta erano lanciati anatemi per l’inutilità di aver assaltato una barchetta carica del solo odio di un uomo disperato.
Lo trassero comunque come prigioniero per essere venduto come schiavo in terra d’Africa.

Le cose andarono meglio quando, portato in catene nella città africana, fu acquistato da Don Ramin Zaharawi, un illuminato medico e chimico arabo che aveva necessità di un forte assistente vista l’età avanzata.
Trattato come un aiutante e non come schiavo, Corrado manifestò un talento nell’apprendere la scienza di cui il medico era maestro e con il tempo, fece sua quell’arte fino a farne un lavoro.
Passarono così gli anni e le ferree leggi musulmane in vigore a Biserta, ritornata sotto l’influenza ottomana, iniziarono a stringersi al collo di Corrado come un nodo scorsoio.

Zaharawi, che aveva mantenuto buoni rapporti con dei notabili spagnoli che avevano dominato quei territori fino a non molto tempo prima, trovò un salvacondotto per quello che era diventato a metà tra un amico e un figlio e lo spedì in Spagna, come un illuminato e illustre medico. Inutile a dire che il destino ci mise lo zampino, com’era chiaramente ancora viva la voglia di vendetta che covava sotto la cenere, anche se oramai la sorte lo aveva portato lontano da tutto quello che è stato narrato fino ad ora.
Arrivato a Madrid, non ci mise poi molto a farsi apprezzare per la sua conoscenza dell’arte medica e la sua tecnica nel metterla in pratica, tanto che nel giro di un anno fu chiamato direttamente tra i medici di corte del re Filippo IV.

Fu così che nel 1649, dopo reiterati abusi fiscali che lo scaltro Conte di Conversano aveva messo in atto non curandosi delle leggi allora imposte dal sovrano spagnolo, fu arrestato e condotto in quel di Madrid per una lunga prigionia lasciando la reggenza a sua moglie Isabella Filomarino della Rocca, che del marito condivideva il piglio imperioso e il carattere determinato e crudele.

Inutile dire che la notizia al medico Corrado non parve vera e gli sembrò un chiaro segnale che il destino voleva appianare con lui un conto aperto da tempo.
Lasciando con rammarico un impiego redditizio a corte, chiese e ottenne di essere spostato come medico curante alle carceri dove il Guercio di Puglia era stato tratto in arresto.
Corrado era bravo come medico quanto eccelso come alchimista, avendo appreso ogni segreto dal suo buon mentore, il suo talento in quell’arte era paragonabile solo alla voglia di vendetta che aveva ripreso ad ardere alimentata dal vento dell’odio.
Riuscì perfino a farsi amico il perfido nemico, soffocando in sé la rabbia che aveva addosso, pur di dare alla sua impresa maggiori possibilità di successo.

Non gli mancava l’esperienza, non gli mancava la motivazione, non gli mancavano gli strumenti ma soprattutto quello che non gli mancò per nulla fu il tempo.
Ogni giorno comprese le festività, per sedici anni filati, senza alcun tipo di esitazione, somministrò al tiranno reso inerme dalla propria cupidigia, ogni composto o mistura di sua conoscenza oltre a qualche sperimentazione che potevano condurlo ad un passo dalla morte senza mai liberarlo definitivamente.
Arrivato il giorno della sua scarcerazione, dopo aver attraversato tra indicibili sofferenze sedici anni di prigionia, il medico Corrado che ancora non valutava saldato il suo conto, decise che era giunto il momento di dare al perfido Conte la dose letale.

Il giorno del rientro in patria, prima della partenza, gli somministrò della ricina, un potente veleno di origine vegetale in grado di agire sul sangue e sul sistema respiratorio.
Il coriaceo Conte resistette a lungo tra strazianti dolori, ma alla fine cadde senza più forze all’altezza di Barcellona, senza poter più ritornare nella sua terra natia se non imbalsamato come una di quelle prede che lui amava tanto cacciare.

Corrado ritornò da vivo, anche se oramai forestiero e sconosciuto, a bordo di una piccola imbarcazione che gli aveva concesso il Re di Spagna per i suoi servigi e si costruì una piccola casetta isolata in una palude, che prese proprio il nome di Palude del Capitano.

L’autore – Simone Censi
Classe 1978, nato a Fabriano ma residente a Macerata, ha all’attivo numerose pubblicazioni in rete e su varie antologie di poesia e narrativa, tra le quali: secondo posto al Premio Internazionale Il Labirinto con il racconto “Riflesso tonico labirintico” (2008). Terzo posto al Premio Lupo con il racconto “L’anabasi dell’uomo moderno” (Faeto – 2009). Finalista del concorso nazionale E-Scrivo e pubblicazione della raccolta di racconti “Ghost Hunter – Il metodo Gallagher” (D’Accolti-2012). Vincitore del concorso nazionale FantaExpo con il racconto “La lettera del Male” (Salerno – 2012), vincitore del Premio Write-Aids con la poesia “Viandanti smarriti” (Ferrara – 2012). Terzo posto al concorso Tuttiscrittori con il racconto “Quello che vedo” (Coarezza – 2013), secondo posto al Premio Giuseppe Matarazzo con il romanzo “Il garzone del boia” (Montescaglioso – 2013). Vincitore del Premio letterario internazionale di poesia Festival degli Spaventapasseri con la poesia “Il cattivo Spaventapasseri” (Rovetta – 2014). Pubblicazione del romanzo “Amico, Nemico” (Montag – 2015), vincitore del concorso Io penso in siciliano con il racconto “Damon Gallagher in Truvaturi” (Montalbano – 2015). Vincitore del Premio Luogos Scripture Contest con la poesia “Seduto a terra” (Luogos – 2016).

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Approfondimenti: per conoscere il Salento
La Palude del Capitano fa parte di un parco naturale che comprende anche Porto Selvaggio, localizzati entrambi lungo il litorale del comune di Nardò. La costa è rocciosa e frastagliata, e caratterizzata da pinete e macchia mediterranea. Lungo il litorale sono dislocate la Torre dell’Alto, la Torre Uluzzo e la Torre Inserraglio. È questo un luogo in cui la pace e la natura regnano sovrane in questo suggestivo lembo di macchia incontaminata, l’ideale per ritemprare lo spirito e il corpo dalla fatica delle città, non a caso meta di trekking.

Il nome deriverebbe, secondo la leggenda, da un uomo di mare, un capitano, che decise di abbandonare il suo vagabondaggio di porto in porto per una vita più rilassante sulla terraferma. Alla fine scelse questo tratto di costa per costruirvi la propria dimora. I ruderi della Casa del Capitano vegliano ancora sulla laguna e osservandoli non è difficile capire i motivi che spinsero il marinaio a fermarsi qui. In uno scenario surreale, popolato da pesci, uccelli e rare specie vegetali, si aprono limpidi specchi d’acqua salmastra, le cosiddette “spunnulate”, cavità generate dal crollo della volta di grotte sotterranee. Oltre che ad un elevato numero di sorgenti di acqua fredda, sparse lungo tutto il litorale e che causano piccoli e medi fenomeni di erosione, la palude del capitano ospita numerose specie di animali acquatici e anche rarissime specie vegetali come la Sarcopoterium Spinosum.

Riguardo a Torre dell’Alto e la rupe della dannata è possibile leggere gli approfondimenti del racconto Sulle rupe della dannata, cliccando qui.

* La grafica della cover è a cura di Dora Foti Sciavaliere