Chi scrive Si racconta: intervista ad Annalisa Bari – Salone salotto salottino

Era tornata nelle librerie lo scorso novembre, con Salone salotto salottino (Esperidi Edizioni) – romanzo di costume e di formazione – , la scrittrice salentina Annalisa Bari interrompe il suo silenzio narrativo dopo il suo ultimo romanzo storico. La redazione di AgorArt ha voluto incontrarla per parlare del suo nuovo romanzo, del quale potete anche leggere la nostra recensione.

  • Buonasera Annalisa. Ritorni dopo sei anni dalla tua ultima pubblicazione, “Solo allora cadranno le stelle” (2014) è stato il tempo necessario per scrivere questo romanzo o “Salone salotto salottino” è una di quelle opere scritte a più riprese finché non maturano i tempi per venire definitivamente fuori dal quel cassetto dove immaginiamo vengano “depositate” le idee degli scrittori?
    È vero, ci ho messo un bel po’ a scrivere questo libro, perché inizialmente l’ho percepito solo come un bisogno di raccontare il mondo in evoluzione di coloro che sono nati negli anni Quaranta. E tra questi, io. È stata una ricostruzione lenta, quasi un rivivere col gusto di assaporare, di guardare, di udire, di toccare con il piacere dell’evocazione. A volte mi sono fermata anche per periodi lunghi. Non c’era fretta. Già la vita scorre troppo veloce. Così mi sono concesso il privilegio di governarlo, il tempo. Questo è anche il bello della scrittura: affrettare o accelerare il tempo a proprio piacimento. E mentre scrivevo non pensavo minimamente alla pubblicazione: scrivevo per me, per il piacere di rivivere emozioni e sensazioni. Forse non lo avrei neanche pubblicato se non fosse stato per l’insistenza di alcune persone a me vicine.
  • Tu stessa hai dichiarato che non si tratta di un’opera autobiografica ma che comunque c’è della tua storia, della tua famiglia. Tre aspetti che ti appartengono e che sono penetrati nella storia dei Passolungo?
    Non è un’opera autobiografica nel senso che non è la mia storia, tuttavia molte figure si ispirano a persone veramente esistite e alcune storie sono assolutamente vere, magari con qualche ritocco per renderle più gustose e … meno riconoscibili. Personalmente mi appartiene tutto il percorso di autodeterminazione nel privato e nel lavoro, il mio modo di rapportarmi con gli altri, la mia voglia di viaggiare e conoscere.
  • Sicuramente è tra le domande più frequenti che ti avranno rivolto, perché questo titolo, “Salone salotto salottino”?
    In tutti i palazzi signorili di un tempo c’erano almeno due ambienti deputati a ricevere, in genere un salone per le feste e un salotto per le conversazioni. Questi ambienti erano sempre rigorosamente puliti e in ordine perché dovevano testimoniare un certo status sociale, il perbenismo. Il resto della magione poteva anche essere trascurata, ma le stanze di ricevimento dovevano essere il biglietto da visita, nella logica del “salvare le apparenze”, che è uno dei temi romanzo. Del resto i salotti sono per antonomasia i luoghi delle chiacchiere e il mio romanzo non è altro che una chiacchierata lunga cinquant’anni.
  • E se dovessi spiegare il ruolo “sociale” della “corte” nei nostri paesi (per chi magari anche non sa cosa sia la “corte”)?
    La stessa conformazione della corte, chiusa da tutti i lati e aperta solo sul lato della strada, suggerisce un luogo protetto ed esclusivo per i soli abitanti. Una trovata urbanistica spontanea che si perde nella notte dei tempi, nata come esigenza primaria di piccole comunità senza risorse istituzionali; una sorta di condominio orizzontale con uno spazio comune per le attività all’aperto e per uno scambio di aiuto reciproco. L’amicizia e la confidenza tra gli abitanti facevano sì che gli usci di casa fossero sempre apribili anche dall’esterno, sicché chiunque poteva avere accesso all’abitazione del vicino. Certo a volte capitavano anche litigi tra gli abitanti della corte e situazioni di rancore che potevano durare per anni, come in ogni condominio del resto. In genere però la corte creava un ambiente amico rappresentato dai bambini che giocavano insieme; dalle donne che si scambiavano confidenze, utensili, ingredienti culinari; dagli uomini che si prestavano ad aiutarsi a vicenda nelle faccende più faticose. L’anima della corte emergeva soprattutto in occasione del parto, della morte, della malattia, delle feste in famiglia; si mostrava distesa nelle sere d’estate quando lo spazio comune si trasformava nel salotto dove ognuno poteva raccontare la propria giornata, confidare le proprie ansie, esibire i propri successi o, magari, soltanto spettegolare sugli abitanti di un’altra corte.
  • Ti senti affine alla tua Veronica, diciamo un po’ anticonformista e in cerca di propri spazi, o sei stata e sei più allineata con le consuetudini?
    Somiglio molto a Veronica, non tanto per l’anticonformismo fine a se stesso, quanto per il bisogno che ho sempre avuto di realizzarmi nel lavoro e nell’autodeterminazione. Il che non esclude, da parte mia ed entro certi limiti, l’accettazione di norme consolidate che in un certo senso mi mettono in sintonia con l’ambiente che mi circonda. Non è difficile. Alla fine ci si allena a rimanere in equilibrio.
  • Veronica cerca la sua emancipazione attraverso lo studio e una professione, come insegnante quanto ritieni importante la scuola in questo processo e quanto fa e/o deve fare per promuovere la cultura di genere, di cui si parla tanto ormai?
    Un tempo la scuola era l’unico luogo dove i ragazzi potevano conoscere, imparare a ragionare, a discernere, a orientarsi nelle scelte future. Oggi i mezzi tecnologici, la possibilità di viaggiare e di confrontarsi con altre realtà sostituiscono ampiamente la funzione della scuola. Credo che l’opera dei docenti adesso debba essere soprattutto quella di aiutare gli allievi a scoprire i propri talenti e a valorizzarli; ad acquisire i mezzi intellettivi per poter usufruire in modo critico di tutto ciò che il mondo esterno propone. In quest’ottica anche la cultura di genere può intraprendere un percorso corretto. Ho sempre pensato la scuola come esercizio al rispetto degli altri.
  • Ringraziandoti intanto per la tua disponibilità, concludo con la più scontata delle domande: c’è già l’idea per un nuovo progetto narrativo?
    Non mi sono mai lambiccata a cercare nuove storie da raccontare. Le idee mi vengono così, quando meno me le aspetto. Può essere un luogo, una persona, un ricordo ad accendere la scintilla. Non posso fare altro che intercettare. Intanto mi riposo e … leggo. Questo sì.

Sara Foti Sciavaliere

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– S.Foti Sciavaliere, Salone salotto salottino di Annalisa Bari – Recensione, in AgorART, 23 novembre 2019