A stretto giro di boa dalla pubblicazione della nostra recensione di Niente di serio, almeno credo, abbiamo voluto scambiare quattro chiacchiere con Cecile Bertod, l’autrice di questo divertente e romantico chick-lit edito da Leone Editore.
- “Niente di serio, almeno credo” è il secondo dei tuoi romanzo che leggo, e non vorrei essere avventata nel “giudizio” ma mi pare che nelle tue storie ci sia un po’ la voglia di rivincita del modello delle “ragazza della porta accanto”, un po’ la speranza per tutte le comuni mortali che ci sia alla fine la possibilità della fiaba. Mi sbaglio?
Anche, a volte. Diciamo che nella narrativa contemporanea c’è sempre spazio per l’eccezionalità – le molto grasse, le molto belle, le molto ricche, le molto povere – ogni modello, spinto all’estremo, riesce per qualche ragione a realizzarsi. Quello che manca è tutto il mondo che è nel mezzo, che per qualche ragione viene escluso. Parliamo di normalità, che poi è il target di riferimento della narrativa di intrattenimento. Parliamo a persone normali, siamo persone normali, ma per qualche ragione l’argomento deve essere straordinario. Forse perché noi normali detestiamo più di ogni altra cosa la nostra natura nel mezzo, che non ci rende per qualche motive speciali, nel bene o nel male che sia. Per quanto mi riguarda non c’è nulla di più straordinario della capacità di resistere a prescindere dalle sfide che siamo sottoposti ad affrontare con i soli mezzi che ci concede la nostra normalità, per l’appunto. Di norma siamo sottoposte con le nostre paure, le nostre insicurezze, a compiere gli stessi passi di qualsiasi altra persona, spesso e volentieri raggiungendo gli stessi obiettivi, a volte superandoli. Mi piacerebbe che questo messaggio passasse, insieme a tutti gli altri. Sono davvero satura di cenerentole al ballo. Al ballo c’erano duemila invitati, parliamo sempre dello stesso. Preferisco andare a scoprire chi è quella principessa sconosciuta nascosta dietro a una tenda con gli occhiali, mi sta più simpatica per indole.
- L’ironia pungente, le battute al vetriolo dei tuoi romanzi sono solo un ben riuscito espediente per dare pepe ai dialoghi e alla storia, o fa parte della tua personalità?
Non credo sia una cosa scindibile dalla personalità, fa parte di te, è difficile da costruire da zero se non ti appartiene. Così come lo sono un mucchio di alter cose. Conoscevo un ragazzo che riusciva a parlare come un personaggio dell’Orlando Furioso, stesso linguaggio aulico da epica cavalleresca. Io non potrei mai, ovviamente. Magari scrivendo, aiutandomi con dei testi a fronte. Diverso sarebbe sostenere una conversazione così, improvvisando. Sono cresciuta in una regione fortemente ironica, in una famiglia particolarmente sarcastica. Un po’ lo devo anche a questo. Mettici una vita da sfigata e hai il quadro clinico complete =D
- Quanto Cecile Bertod c’è in Dorothy Dorfman? Nei suoi panni, da quale dei due fratelli Kline ti saresti lasciata sedurre?
Credo quasi tutto, a parte la capacità di finire tra le braccia di un attore di soap. Ho messo più di quanto volevo di me in questo personaggio, ed è successo per caso. A prescindere dal carattere, però, non credo che avrei voluto nessuno dei due. Perché ci sono delle componenti che mancano a Doth che invece mi appartengono, che credo avrebbero finito col farmi tornare a casa da sola quella sera. Il mio principe ideale è in un altro libro. Credo però che Chaz per Doth sia perfetto.
- “Niente di serio, almeno credo”. Il titolo è uno dei fattori di attrazione per il lettore. Da dove nasce questo? Un’intuizione spontanea o una scelta ragionata?
Molto ragionata. È davvero difficile che ci sia qualcosa di non ragionato mille volte in quello che faccio, che sembra intuitivo solo in apparenza. Scrivo mille cose di getto, poi parte la revisione, l’analisi, la rielaborazione. Mille di quelle cose possono tranquillamente essere cestinate e riscritte altre mille volte.
- Una domanda forse impertinente e ti puoi avvalere anche del quinto emendamento e della facoltà di non rispondere… Alcune colleghe scrittrici stanno sperimentando la scrittura a quattro mani, ci hai mai pensato? Con chi ti piacerebbe collaborare?
La scrittura è un processo molto individuale, non credo di essere in grado di dividere i miei capitoli con qualcuno, per il semplice fatto che quando scrivo ho già un inizio, una fine e un percorso in mente. Aggiungere qualcuno significherebbe stravolgere un percorso, anche un mezzo di esposizione, che può essere solo di uno e a lui appartenere. Diverso sarebbe dovendo mettere due personaggi a confronto. Quindi magari scrivere un romanzo con due punti di vista. Se ogni autore avesse un suo spazio personale potrei accettarlo, resta che sono una persona poco incline ai compromessi, perciò evito di provarci. Mi spiace, temo sia uno di quei lati burberi, introversi e dispotici di me che, anche volendo, non riuscirei a mitigare. Quindi non ha senso nemmeno provare, se so già dove si andrebbe a finire. Molto meglio che ognuno continui a scrivere i suoi libri e vederci e stare insieme per fare altro, tipo affogare nelle torte =)
- Se dovessi riassumere il senso del tuo romanzo in un motto, in uno slogan, quale sarebbe?
Ehm… non sono brava in queste cose. Uhm… Tipo… Tipo non toccare i nani da giardino e preferire sempre l’espresso alle miscele solubili di caffè? XDD aiuto.
Ahahah, la tua ironia è esilarante, Cecile!
Grazie per la tua disponibilità.
Sara FotiSciavaliere
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- S.Foti Sciavaliere, Niente di serio, almeno credo di Cecile Bertod – Recensione, in agorart.net, 5 novembre 2019.