#ChiscriveSiracconta: intervista a Francesca Innocenzi – Canto del vuoto cavo

“Canto del vuoto cavo” di Francesca Innocenzi è una silloge di sessanta liriche che seguono lo schema dell’haiku e delle sue varianti (doppio haiku, tanka). Una metrica che vuole contenere i  vuoti attraversano la realtà: solitudini individuali e collettive, voragini agorafobiche, derive sociali, ma anche spazi interiori inesplorati e fertili. In questa raccolta poetica, il vuoto diventa così canto attraverso la trasversalità dei codici linguistici, per scoprire pienezza di senso oltre ogni vincolo temporale.

Vi proponiamo di seguito l’intervista all’autrice, rilasciata per AgorArt.

“Canto del vuoto cavo”, provi a spiegarci il significato del titolo della silloge poetica?

Il titolo suggerisce un’immagine del vuoto in quanto scaturigine della poesia. Il vuoto può essere più cose insieme. È lacuna e mancanza, quindi percezione dolorosa, che però può rivelarsi spazio fertile di nuove possibilità; una sorta di catarsi, di rinascita. Per me il vuoto è la solitudine, temuta e amata, che ha segnato la mia adolescenza, come pure la vertigine agorafobica degli attacchi di panico. Nel libro c’è anche questo. Il titolo denota anche l’attitudine a dotare il vuoto di uno spessore ontologico: di qui l’impiego dell’aggettivo qualificativo.

Perché la scelta di questa tipologia di componimenti?

Per un certo periodo, la metrica dello haiku (doppio, soprattutto) ha costituito per me una sorta di rassicurante contenitore. Mi sembrava avesse un ritmo intrinseco che trovavo appagante. Oggi trovo fuorviante definire haiku questi componimenti, poiché dello haiku c’è, appunto, poco: lo schema metrico, come anche la tendenza ad evitare l’uso della prima persona. Ma, in tutto il resto, vi è assolta libertà. E la natura resta sullo sfondo, ha un ruolo assolutamente marginale.

C’è una forma di proiezione biografica nei suoi versi?

È sicuramente presente. Il libro comprende il percorso dei miei primi quarant’anni. Non a caso, ho iniziato a scrivere di getto le prime poesie della raccolta solo un paio di giorni dopo il mio compleanno. Ma non vi è completezza né sistematicità, e neppure linearità temporale. Emergono a sprazzi frammenti di vita delle varie epoche, dall’infanzia al lockdown del 2020, l’«interrotto inverno» in cui ognuno ha perduto qualcuno o qualcosa.  Nel contempo cerco di far posto ad una vasta umanità che mi sta a cuore: i reietti, gli immigrati, i rom, tutti gli imprigionati nel vuoto della solitudine e dell’emarginazione.

Da dove è iniziata la sua passione per la poesia?

I miei esordi poetici sono certamente legati ad una certa atmosfera presente in famiglia: mio padre è stato anche lui docente di lettere e poeta. Scrissi la mia prima poesia all’età di sette anni, a quel tempo non conoscevo ancora i versi di mio padre. Solo più tardi, quando avevo quindici anni, lui pubblicò la sua prima raccolta, che apprezzai molto; probabilmente questo fatto fu all’origine di una stagione particolarmente prolifica per me: quell’estate scrissi tante poesie.

La scrittura dei suoi componimenti è frutto di un’ispirazione del momento o sono costruzioni a tavolino?

L’ispirazione è una sorta di evento sismico che accade in un momento preciso, ma scaturisce da una serie di moti tellurici, da un’energia che si è andata accumulando nel tempo. Tuttavia nella poesia, nella scrittura, non tutto si esaurisce lì: è essenziale la revisione, il lavoro di limatura.

A quali poeti si sente più affine e a quale vorrebbe avvicinarsi?

Posso rispondere citando poeti e poete del passato, che amo: i lirici greci (soprattutto gli epigrammisti); Ungaretti, Caproni, Antonia Pozzi, Pound, Benn; o poeti delle Marche, la regione dove sono nata, come Remo Pagnanelli. Premesso ciò, credo anche che i poeti vadano conosciuti e amati, se possibile, da vivi; ed è quello che mi sto impegnando a fare, soprattutto in questo ultimo anno. In definitiva, le influenze che si subiscono, nella scrittura come in tutto il resto, sono molteplici e non provengono esclusivamente da ciò che si ama. Quindi non credo mi sia possibile rispondere in maniera esaustiva.

(a cura di Sara Foti Sciavaliere)