#ChiscriveSiracconta: intervista a Serena Guerra – “A cavallo verso nessuno”

Un’istruttrice di equitazione, praticante di arti marziali e donna ai ferri corti con Dio, si destreggia tra gli ostacoli della propria esistenza cercandone ostinatamente il senso e trovando così la strada che la conduce fino all’esperienza dell’“illuminazione”, o “realizzazione del sé”: “A cavallo verso nessuno” è una storia per tutti che potrebbe essere la storia di tutti. Ma ne abbiamo voluto discutere con l’autrice Serena Guerra in questa intervista che rilasciato per AgorART.La scrittrice, classe ’67, dal 1990 lavora nel mondo dell’equitazione e “A cavallo verso nessuno” è il suo esordio letterario.

Basta leggere la quarta di copertina e la nota biografica, poi leggi le prime pagine e la domanda sorge spontanea: “A cavallo verso nessuno” è proprio un’opera autobiografica o si tratta di un espediente narrativo, dove parte della sua storia si combina con la fiction?

Guardi, sono contenta che mi abbia fatto questa domanda, perché in molti hanno parlato del mio libro definendolo una autobiografia senza, in realtà, esserne sicuri. Non è mai saggio dare le cose per scontate. Temo però, mi scusi tanto, che non potrò darle la risposta che cerca.


Come lei dice, basta dare un’occhiata alla quarta di copertina per intuire che tra la vita della protagonista e la mia ci sono molte similitudini; tuttavia non mi addentrerò a sviscerare il se, il come e il quanto. Non è importante saperlo. Ognuno resterà libero di credere o non credere che quanto si narra sia accaduto davvero oppure no. Perché la verità, me ne convinco sempre di più, alla fine è un fatto molto personale, piuttosto che oggettivo, ed il mondo che viviamo è sempre il riflesso di noi che lo guardiamo. Ogni storia, intesa come mera sequenza di fatti, è come un disegno da colorare: è accaduto questo, poi questo e quest’altro, linee nere su foglio bianco. I pensieri e le emozioni di chi la vive, invece, sono la luce, le ombre, le diverse angolazioni; sono il pennello del pittore che, pur senza uscire dai confini del disegno, può ottenere effetti completamente diversi a seconda che decida di usare il nero piuttosto che il rosso, il verde o l’azzurro. Tutti noi siamo pittori, in qualche modo, e il disegno, condizionato dalle nostre convinzioni, dalle nostre aspirazioni e dalla diversa sensibilità di ciascuno, potrà diventare decine di quadri diversi, senza necessariamente che uno sia più vero o più falso di un altro. E questo non è nemmeno così importante, perché alla fine sarà solo la nostra verità ad avere effetti sulla nostra evoluzione, e non quella degli altri. Così, che ognuno si senta libero di scegliere ciò che sente essere vero in fondo al proprio cuore. Per quanto mi riguarda, e come dico nel mio libro, se il mio cuore mi dice che una cosa è così, niente è in grado di convincermi del contrario. E’ importante imparare a scegliere a cosa credere, e crederci fino in fondo.

Può spiegarci il senso del titolo (senza rivelare troppo del libro, chiaramente)?

Il titolo è un invito alla disidentificazione. Un’invocazione verso una felicità che deriva dal fondersi, anziché dal distinguersi, dal sentirsi parte di un tutto, piuttosto che dal voler emergere a tutti i costi.

“(…).per essere felici basta essere ciò che siamo veramente”, lei scrive. Come si fa a essere se stessi veramente?..e soprattutto se non arriva quell'”illuminazione” di cui scrive è possibile trovare la felicità o riconoscerla?

Beh, mi sembra di aver esposto la mia idea in proposito abbastanza chiaramente nel libro e nel titolo: per essere ciò che siamo veramente, occorre abbandonare quelle identità che così alacremente lavoriamo per costruirci: l’ingegnere, la top model, il direttore d’orchestra, il venditore di panini, lo sportivo; e ancora, e molto più semplicemente, la moglie, l’amante, la figlia o il figlio, lo sfigato, eccetera. Tutte queste non sono cose che “siamo”, bensì che “facciamo” – che è molto diverso – o che rappresentiamo, nel senso di “portare sulla scena”. Purtroppo abbiamo una continua tendenza ad identificarci con questi ruoli, che in realtà sono semplicemente manifestazioni di un essere che esiste “prima” e “al di là”. Per ritrovarsi veramente occorre rifare la strada al contrario, lasciarsi alle spalle le sovrastrutture e dirigersi verso l’origine, verso la nostra parte più profonda e più universale. Facendo ancora riferimento al titolo, più che domandarci cosa “fare” per essere se stessi, sarebbe meglio chiedersi cosa “non fare”. Solo quando il fare si esaurisce, quando il qualcuno scompare, l’essere riesce ad apparire. Mi chiedi se è possibile trovare la felicità, e come riconoscerla. Riguardo al riconoscerla, credo che la risposta sia molto semplice: la felicità la riconosci per forza, è impossibile sbagliare, perché è una condizione assoluta, che non dipende da niente: non è soggetta al perdere o al conquistare, all’avere o non avere, ma solo all’essere. Osho diceva che per sapere se siamo veramente felici, basta domandarsi perché lo siamo. Se siamo felici per qualcosa, allora non è vera felicità, se invece siamo  felici per nessun motivo, allora è vera felicità. Ma non mi perderò a discettare su un argomento riguardo al quale esistono innumerevoli ed illustrissimi testi, di altrettanti illustri maestri, per chi desidera approfondire. Quello che invece, qui e ora, è interessante sottolineare, è che nel libro la protagonista cerca, appunto, l’illuminazione, sperando di raggiungere, attraverso essa, la felicità; e alla fine, dopo esserci arrivata, si domanda: ma ce n’era davvero bisogno?
Non sarebbe piuttosto sufficiente saper apprezzare le cose che già abbiamo, così come meriterebbero?
Nella vita di ciascuno di noi esistono ricchezze alle quali siamo ormai assuefatti, offuscati dalla consuetudine. Il nostro pensiero insegue sempre ciò che manca, è sempre in corsa verso un obiettivo che, come un orizzonte in fuga, si sposta inevitabilmente più avanti ogni volta che ci avviciniamo. Se ci si fermasse invece a valutare ciò che abbiamo, e a cui non facciamo più caso – anche le cose più semplici, come respirare, camminare, vedere, amare, stupirsi – ci potremmo rendere conto che, in realtà, non ci manca proprio niente. Il guaio è che ci accorgiamo di ciò che abbiamo, e riusciamo ad apprezzarlo, solo quando ci viene tolto. Ecco che, allora, lo vediamo in tutto il suo splendore, e vorremmo tornare indietro per poterlo gustare come non abbiamo saputo fare prima. Se continuiamo a cercare la felicità in ciò che ci circonda, e che potremmo perdere, non la troveremo mai: la felicità è un punto di vista, uno stato di consapevolezza, un appagamento nell’istante presente.
Attenzione per le piccole cose, fiducia nel proprio cammino, sintonia con ciò che ci circonda: questa è, per me, la vera ricetta della felicità.

Perchè ha deciso di scrivere questo libro?

In realtà io non ho “deciso” di scrivere questo libro. La scrittura è una forma di espressione, un atto per lo più spontaneo. Sarebbe meglio dire che “mi è venuto da scrivere” questo libro, proprio allo stesso modo in cui ti scappa uno starnuto. E per quanto non ci sia stata dietro una ben progettata intenzione, adesso che esiste credo che ce ne fosse bisogno.

Ritornando al discorso delle sovrastrutture, con cui ricopriamo la nostra originale essenza, oggi ne abbiamo in sovrabbondanza. Siamo letteralmente bombardati dal concetto di personaggio, dal culto dell’immagine. Ci vestiamo per apparire in un certo modo, ci comportiamo per apparire in un certo modo, usiamo parole alla moda per apparire in un certo modo. Ci pettiniamo, ci trucchiamo, ci copriamo di tatuaggi, ci creiamo profili social e li inondiamo di selfie per proiettare fuori, continuamente, l’immagine di noi che più ci affascina e che desideriamo proporre al mondo. La rotta è decisamente verso l’esterno, e colpendo l’immagine di qualcuno si può riuscire a turbarlo e ferirlo anche gravemente. Soprattutto i ragazzi sono pericolosamente disancorati dal proprio essere. Basta vedere il numero di suicidi tra ragazzini che si sono sentiti umiliati sui social. E in questo marasma di personaggi fittizi, di figure effimere, spesso anche la spiritualità diventa business, un modo in più per crearsi un’immagine originale, piuttosto che una silenziosa ed intima ricerca. Ogni cosa viene sfoggiata, declamata: dolori, emozioni, scoperte, battaglie personali… tutto al servizio del “personaggio”. C’è veramente il rischio di smarrirsi, di ritrovarsi a recitare un film piuttosto che a vivere una vita vera. Quindi no, non ho “deciso” di scrivere questo libro, ma ora che è scritto sono proprio contenta di averlo fatto, di aver proposto un cammino in controtendenza, un ritorno a noi stessi e alla vera sostanza del nostro essere.

Pensa che la sua esperienza nella scrittura potrà trovare un’altra storia da raccontare, magari una storia differente dalla sua?

Spero proprio di sì. Scrivere mi è sempre piaciuto e “A cavallo verso nessuno”, sebbene sia il primo romanzo che ho pubblicato, non è la prima cosa che ho scritto. Quindi penso che scriverò ancora, ma dal momento che non amo i progetti e le cose troppo organizzate, preferisco non pensarci adesso. Per ora intendo dedicarmi alla promozione di questo mio primo libro. Poi, se e quando il momento di scrivere di nuovo arriverà, mi siederò e scriverò ancora.

Grazie per la disponibilità.

Grazie a voi per avermi invitato sul vostro blog. Speriamo di ritrovarci ancora.

Sara Foti Sciavaliere