Exit West di Mohsin Hamid – Recensione

Terzo romanzo dello scrittore pakistano Mohsin Hamid, Exit West è un libro che racconta di uno dei più attuali drammi umani e sociali, quello dei migranti, la guerra che li spinge alla fuga e all’esilio lontano dalla loro terra. Una storia collettiva che risalta sullo sfondo del destino di una coppia, Nadia e Saeed, in cerca di una “porta” per un’altra vita.

La trama
Nadia e Saeed vivono nella stessa città, hanno una casa, lavoro (lei lavora in un’agenzia assicurativa lui in una pubblicitaria), una loro vita, finché le loro strade si incrociano mentre la situazione in città inizia a cambiare in una parabola discendente di barbarie.

Saeed è timido e un po’ goffo con le ragazze, vive a casa dei genitori. Nadia, sensuale e indipendente, veste sempre con una lunga tunica nera e va in giro in scooter. I due non sembrano avere molto in comune, eppure si incontrano in un corso serale, si frequentano e si scoprono innamorati. Cercano di tenere in vita il loro giovane amore messo alla prova dagli eventi che precipitano inesorabili: le guerriglie per le strade, i fucili, i rastrellamenti, i droni, la morte che si porta via la madre di Saeed.

Intanto, come tutti, Nadia e Saeed sentono parlare delle black doors, porte che traghettano in un misterioso altrove, verso una nuova speranza, dove ben presto si ritrovano, insieme ad altri milioni di profughi, provando a ricominciare. Ma sarà davvero possibile lasciare tutto alle spalle e iniziare una nuova vita?

L’autore – Mohsin Hamid
Cresciuto a Lahore, Mohsin Hamid ha frequentato la Princeton University e la Harvard Law School, lavorando poi per diversi anni come consulente aziendale a New York. Il suo primo romanzo, Nero Pakistan, tradotto in Italia da Piemme, ha vinto il Betty Trask Award, è stato finalista nel PEN/Hemingway Award ed è stato un Notable Book of the Year per il «New York Times». Suoi articoli e saggi sono apparsi su «Time», «The New York Times» e «The Guardian». Il fondamentalista riluttante, pubblicato da Einaudi nel 2007 e tradotto in più di 25 lingue, è stato un bestseller internazionale e ha vinto l’Anisfield-Wolf Book Award e l’Asian American Literary Award, oltre a essere selezionato tra i finalisti del Man Booker Prize. Da questo libro è stato tratto un film per la regia di Mira Nair. Nel 2013, sempre per Einaudi, è uscito Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente, vincitore del Premio Terzani 2014, nel 2016 Le civiltà del disagio e quindi nel 2017 viene pubblicato Exit West.

Recensione
Viviamo l’epoca delle grandi migrazioni che stanno trasformando la nostra società e, invece di andare incontro all’altro in uno spirito di accoglienza sociale e solidarietà, è sempre più frequente l’inasprimento della soglia di tolleranza. Per quelle frontiere fisiche che in tempi moderni sono state abbattute, oggi ne nascono nuove, ideologiche e di intolleranza, forse più dure da abbattere. Exit West di Mohsin Hamid narra di migranti e rifugiati, quale argomenti più attuale e lo fa mostrandoci un quadro globale della Storia contemporanea, come una zoomata dall’alto, per stringere il dettaglio sulle singole vite, di quella grande massa in movimento: Nadia e Saeed, i protagonisti, con il loro amore, i loro sogni, le loro fragilità, sono emblemi, in un certo senso, di quell’umanità che si perde di vista nel macro della Storia, la collettività che si racconta attraverso la voce e gli occhi dell’individuo. È questo personalmente è stata uno degli aspetti interessanti di questa lettura, seppure non una tecnica di certa originale, e devo comunque ammettere che in generale Exit West, a dispetto dell’unanime (a quanto pare, per quel che ho letto) parere più che positivo di lettori e critici, non mi ha particolarmente entusiasmato.

Ammetto che la lettura di questo romanzo mi ha lasciato delle perplessità (il che non è detto che sia necessariamente un male, ma…), c’è un certo un disagio e quasi inquietudine claustrofobica dalla quale sono stata colta leggendo, una sensazione che non si è risparmiata fino all’ultima pagina. Qualcuno l’ha definito un romanzo politico, ma non credo che sia la definizione più adatta (proprio a voler per forza mettere un’etichetta di genere a un libro); forse si avvicina alla distopia, malgrado purtroppo si debba fare i conti con il mondo narrativo di Exit West non è lontanissimo dalla nostra realtà, e forse è questo che suscita il disagio:guardare per il tempo della lettura il nostro mondo da un’altra prospettiva e vedere verso quale direzione stiamo proseguendo. E il futuro – per certi versi prossimo – prospettato nel romanzo mette una certa ansia e non sollecita certo alla speranza e all’accoglienza.

Anche la trovata un po’ da fantascienza delle blackdoor, questi passaggi segreti che permettono ai migranti di scappare dalle loro terre devastate dalla guerra di trovare rifugio in Occidente, possono sembrare delle scintille di speranza, ma sono l’innesco di nuovi scontri: queste porte si aprono ovunque, perfino (e spesso) dentro le case, vedendo piombare, quasi vomitati, dall’oscurità famiglie, singoli, gruppi di disperati nell’intimità della propria vita, un’invasione incontrollata che in un certo senso coincide con quel sentimento che oggi il fenomeno ingestibile dei migranti suscita in molti di noi: sono tanti, troppi; se non c’è molto per noi, cosa si aspettano di trovare per loro? O quella sensazione schiacciante per la quale finiamo per sentirci ospiti in casa nostra. Nella nostra realtà, quelle intolleranze che si sollevano nei confronti degli extracomunitari o le insofferenze che infiammano gli animi nelle strutture di accoglienza, sembrano quelle scintille che potrebbero degenerare nel quadro da “guerriglia civile” che Mohsin Hamid racconta tra migranti e i “nativisti” in alcuni quartieri di Londra, naturalmente si parla sempre di una realtà esasperata nelle pagine.

Sarebbe inoltre discutibile la scelta narrativa dell’autore di indicare i luoghi di “approdo” delle blackdoor (Mykonos, Londra, Marin) e non dare un nome al Paese di provenienza di Saeed e Nadia: si parla genericamente di una «città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra», una sorta di universalità geografica della storia ristretta comunque al mondo arabo che sembra attribuire a tutto ciò che sta dall’altra parte delle porte dell’Occidente quei caratteri culturali negativi. È come se Mohsin Hamid faccia “di tutta l’erba un fascio” del mondo arabo in una sorta di condanna della realtà orientale vs quella occidentale, con una connotazione che potrebbe accentuare un certo pregiudizio già diffuso.

La scrittura di Mohsin Hamid è asciutta, per nulla enfatica, non ci sono fronzoli stilistici, solo un piccolo artificio (piuttosto curioso) che lo scrittore adopera di tanto in tanto, rendendo più ridondante alcuni passaggi e trattenendo più a lungo il lettore in gioco di parole che ha un puro gusto di tecnicismo retorico (anche se nelle traduzioni, ho sempre timore a fare queste affermazioni), anche se non ne comprendo chiaramente le ragioni. Giusto un esempio tra gli altri:
«Nel tardo pomeriggio Saeed salì in cima alla collina e Nadia salì in cima alla collina, e da lì contemplarono l’isola, e il mare, e lui si piazzò accanto a dove si piazzò lei, e lei si piazzò accanto a dove si piazzò lui. E il vento strattonava e scompigliava loro i capelli, e si guardarono intorno in cerca dell’altro , ma non videro l’altro, perché lei salì prima di lui e lui salì dopo di lei, e ciascuno dei due restò poco tempo sulla vetta, e in momenti diversi.» (pag. 70)

Mohsin Hamid interseca nella storia dei frammenti fuggenti della nuova vita di altri anonimi individui che oltrepassano le blackdoor ritrovandosi in luoghi ben noti (Tokyo, Vienna, Amsterdam, Tijuana, Marrakech ), mentre la città d’origine dei protagonisti rimane senza nome. Questi “intrusioni” narrative potrebbero essere una tecnica interessante se non fossero fini a se stessi, perché a parte raccontare la globalizzazione di un fenomeno che attraverso il libro, questi sprazzi di vita che si affacciano dalle “porte nere” a una nuova vita non hanno per il lettore un seguito, pertanto non ne vede la ragione di essere.

Exit West è costruito su temi di attualità che non sono solo i migranti e i rifugiati, ma anche l’uso della tecnologia che apre anch’essa, seppure in modo virtuale delle finestre sul mondo globale (si veda il rimando costante allo smartphone e dei social come mezzo imprescindibile per poter comunicare oltre le barriere delle distanze geografiche) o ancora il tema dell’identità sessuale, che viene trattato nella scoperta da parte di Nadia di un orientamento sessuale diverso da quello a cui si è adeguata nella sua vita nel Paese di provenienza, seppure l’argomento viene raccontato per via abbastanza stereotipata.

Cerco di giungere alle conclusioni. Ho letto da qualche parte sul web una frase riferita a questo libro, che secondo me, può dare due opposte chiavi di lettura: «Exit West è un libro venuto dal futuro per dirci che nessuna porta può più essere chiusa». Chi l’ha scritto intendeva di sicuro mostrare il lato positivo della narrazione (lo desumo dal contesto da cui io l’ho estrapolata), ma dopo aver letto il romanzo l’impatto di quello che potrebbe essere un invito, per me diventa quasi un pericoloso avvertimento sul nostro futuro, ben lontano dal messaggio di speranza che all’inizio aveva immaginato di leggervi.

Sara Foti Sciavaliere