La Casa dei Pini di Giusy Giulianini: un racconto per Salento in Love

Si avvicina sempre più la scadenza del contest “Salento in Love – I mari e le torri” e pubblichiamo un altro dei racconti selezionati tra quelli pervenuti finora, “La Case dei Pini” di Giusy Giulianini, un racconto che ci proietta nei ricordi della protagonisti nella sua casa delle vacanze a Torre dell’Orso.

La Casa dei Pini
di Giusy Giulianini

Del Salento ricordo una Casa, con la maiuscola per l’intensità di persistenza nel ricordo, annidata tra le pinete di Torre dell’Orso, alle spalle di un mare lontano negli anni eppure di indelebile trasparenza. Là avevo passato le mie prime estati, e là passai anche quella in cui si annodarono importanti fili di vita, per poi non sbrogliarsi mai più.

Villa dei Pini, così si chiamava. La ricordo immersa in una fragranza viscosa di resina, cui il salmastro del mare aggiungeva note insolite e speziate. Un villino dei primi del secolo scorso, di un rosa appannato e gentile, per intero celato da un verde denso di conifere e quasi sospeso tra alberi e dune. Che c’erano ancora, a muovere un arenile altrimenti troppo piatto e scontato e a schermare la vista severa della Torre di Guardia.

Tre piani con torretta, tre famiglie di amici, tre bambini.
A ben vedere, quell’anno, di bambini ne era rimasto uno solo: io, dieci anni e incerta su quella soglia sfuggente che non è più infanzia ma ancora non sa farsi adolescenza.
Gli altri, quindici e sedici anni, bambini non erano più ma lo erano rimasti, con me e per me, desiderosi ancora di un’infanzia che, trattenuta fin lì a prezzo d’inganno, era stata prodiga di lunghe e perfette stagioni marine. E immutabile, io credevo, nelle corse sfrenate a nascondersi, nelle gare in bici all’ultimo fiato, nell’equilibrio gioioso di stare tra noi.

I pochi anni che ci separavano erano sempre parsi una benedizione: a me che, sotto la sorveglianza degli amici, eludevo il controllo dei genitori per spingermi fin sul ciglio della roccia, lassù davanti alla Torre, ad avvistare elusive navi pirata; a loro che, per lo spazio di un gioco, potevano dimenticare la loro nuova solennità.

Quell’anno però, iniziato in serena sordina come i tanti che lo avevano preceduto, qualcosa cambiava.
In me, dapprima: un umore dispettoso e mutevole, un cuore agitato che, un attimo, mi faceva sottrarre volubile alle carezze del mio amico, e fin lì quasi fratello, per volare l’istante successivo tra le sue braccia. Il naso affondato nella sua Lacoste, restavo stordita dal dopobarba di cui, da poco, aveva preso a inzupparsi, inconsapevole di perdermi in quei fremiti olfattivi ma sicura di non volermene allontanare più.
Poi, anche in loro: lei quasi esplodeva di trionfante fisicità, il viso chiaro di suggestioni preraffaellite, il corpo morbido di promesse; lui, acceso prima di un sorriso e di un’energia incontenibili, si faceva ogni giorno più straniato e apatico, di fatto irriconoscibile.

E, troppo presto, quella divenne ‘l’estate dei bisbigli’. Tra loro. Sussurri accennati, sguardi ritrosi, mani che si sfioravano per poi fuggire, impaurite forse da chissà quali elettrici turbamenti.
Non so come, in quel caldo saturo di tensioni, presto si fece Ferragosto, da sempre la festa delle nostre famiglie, il clou delle vacanze estive ormai prossime a concludersi: il giardino punteggiato di lanterne, gli occhi dal mattino appesi a un cielo avaro di azzurri, a scrutarne gli umori e a cercarne conferme per la solenne cena in terrazza, i profumi dilaganti dalle cucine dove le madri andavano tessendo le trame di spettacolari ricette.

I miei dieci anni, intanto, mostravano il fianco della loro ingenuità. Catturata dai preparativi, la mia attenzione si era allontanata dagli amici per perdersi tra segnaposti fantasiosi, ombrellini variopinti per gli aperitivi, cubetti di ghiaccio a forma di animali. Ronzavo attorno a mia madre come un’ape avida e fastidiosa.

Solo a sera ero corsa a cercarli, all’improvviso consapevole che da un po’ non li vedevo. Li trovai, troppo presto, nel buio più nascosto del nostro giardino, l’angolo segreto in cui sempre ci nascondevamo agli adulti. Avvinghiati come, a staccarsi, ne andasse delle loro vite.
Provai l’impressione esatta di un tempo sospeso, non quello dei giochi però ma di una nuova, indesiderata consapevolezza nella quale saggiai tutte le brucianti sfumature di un orgoglio ferito.
Alle lacrime che poi incontenibili mi annebbiarono gli occhi, lui subito si staccò, lo sguardo intenerito dal mio pianto, disarmato ormai del precedente desiderio ma chiuso comunque in un rifiuto che il dolore partecipe non seppe però rendere meno definitivo. E umiliante.
Eppure non si misero insieme, non quell’estate e neppure dopo, anche se lui credo non seppe mai dimenticarla e più tardi volle dare alla figlia il nome di lei.

La mia amica la persi di lì a poco, vinto il nostro legame da una competizione troppo impari per essere dimenticata.
Lui è rimasto vicino, amico sempre anche quando gli attimi si fanno distanti. Eppure da poco, tradito il ruolo di quasi fratello, si ostina a pretendere quello che allora non ha saputo concedere, e lo esige in nome di un desiderio irragionevole e tardivo, assurdo quanto il suo non capire che non posso donare quello che più non possiedo. Quel tempo è finito, come un impulso esaurito in una prevedibile distonia, di sentire e di attimi.

Pochi anni fa, sono tornata alla Casa dei Pini. È sempre in piedi, tra le conifere, pur tra pareti ferite dalla salsedine. Oggi guarda una baia affollata e rumorosa, in cui è impossibile immaginare l’attracco di navi pirata.
Resta, di quell’estate, una caparbia ripulsa alla fragranza di resina e al canto stridulo delle cicale.

L’autrice – Giusy Giulianini
Giusy Giulianini è nata e vive a Bologna. Si è diplomata al Liceo Classico Luigi Galvani e laureata con lode alla Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, frequentando in seguito la Scuola di Specializzazione in Tecnologie Biomediche della Facoltà di Medicina e Chirurgia, presso la quale ha poi tenuto corsi e laboratori.
È stata borsista presso il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, svolgendo ricerche nel campo degli organi artificiali e dell’elettrostimolazione cardiaca. In tale settore, è autrice di pubblicazioni edite in riviste scientifiche di rilevanza internazionale.
Ha diretto 3S, Società di Servizi per la Sanità, occupandosi di progettazione e gestione di strutture sanitarie e di tutte le problematiche inerenti all’impatto delle apparecchiature biomedicali sulle strutture medesime.
È stata dirigente di General Electric S.p.A., Divisione Medical Systems, prestando servizi integrati di gestione del parco biomedicale presso grandi complessi ospedalieri.

Da qualche anno si occupa di architettura d’interni in ambito residenziale, attività che lascia molto più spazio al suo bisogno di fantasia e colore. Legge, molto e da sempre, e scrive un po’: recensioni e interviste agli autori di narrativa giallo-noir, sua passione inveterata, e qualche riflessione personale, in veste di racconto. Il suo Bellezza bugiarda è stato pubblicato nell’ottobre 2015 sull’antologia L’emozione della bellezza, Le Edizioni del Porticciolo, Collana Il Timone. Da poco ha iniziato un romanzo, un thriller emotivo che racconta una storia che le appartiene da sempre, giunto al Capitolo XVII. Chissà dove la porterà?

Collabora ai portali web di narrativa Babette Brown legge per voi e MilanoNera e su Fb gestisce il gruppo Scrivere per rinascere (ma non solo parole).
Organizza e conduce presentazioni letterarie ed eventi culturali, l’ultimo dei quali “Un editore in noir” è riuscito nell’intento di riunire sul palco quattordici autori di narrativa-giallo noir e a farli interagire con opinionisti di rilevanza nazionale.
Se si dovesse descrivere con una frase, questa sarebbe “I libri sono il mio peccato”.

Approfondimenti. Per scoprire il Salento
Torre dell’Orso è una località balneare del Salento, marina di Melendugno, nel leccese. È nota per l’ampia spiaggia di finissima sabbia color argento e vanta un mare particolarmente limpido per le correnti del Canale d’Otranto. La località assai frequentata da molti turisti, è stata più volte premiata con la Bandiera Blu d’Europa per la trasparenza e la pulizia del mare.

Il toponimo deriva dalla presenza, sulla costa, di una torre del XVI secolo utilizzata in passato per avvistare le navi turche che tentavano di approdare nel Salento. Secondo alcune ipotesi orso farebbe riferimento alla foca monaca; seppure più verosimilmente sarebbe da ricondurre a Urso, cognome del probabile proprietario dell’agro nell’antichità. Stando ad un’altra interpretazione, avendo le torri costiere nomi di santi, il suo nome doveva essere Torre di Sant’Orsola, da cui Torre dell’Orso. Ma ci sarebbe un’altra ipotesi alle origini probabili di questo toponimo: guardando la spiaggia, con la torre alla propria sinistra, si potrà notare una formazione rocciosa raffigurante il profilo di un orso con il muso e le orecchie ben definito; anche se l’erosione ha, nel corso dei decenni, modificato tale sembianza è comunque tuttora ben visibile.

La spiaggia è un’insenatura delimitata da due alte scogliere e alle sue spalle si trovano basse dune con una pineta, impiantata in epoca fascista per bonificare la zona, mentre nella zona sud dell’insenatura sfocia un corso d’acqua chiamato Brunese. L’area meridionale della scogliera è caratterizzata dalla presenza della grotta di San Cristoforo nella quale sono stati rinvenuti antichi graffiti, e ancora nella scogliera sottostante la torre, a nord della baia, sono presenti antiche grotte, oggi murate, che i pescatori alcuni decenni fa usavano per depositare gli attrezzi di pesca e trascorrere, nel periodo estivo, le vacanze.

Nell’estremo sud della baia di Torre dell’Orso, a poca distanza dalla spiaggia, si incontrano due faraglioni, vicini e simili, detti Le due Sorelle. Secondo la leggenda il nome deriva da due sorelle che un giorno decisero di sottrarsi alle fatiche quotidiane cercando refrigerio nel mare. Giunte a Torre dell’Orso, si tuffarono da una rupe nel mare in tempesta non riuscendo più a guadagnare la riva. Gli Dei, mossi a compassione, le tramutarono nei due suggestivi faraglioni.

* La grafica della cover è a cura di Dora Foti Siavaliere