La storia di come ho conosciuto “How I met your mother”

“Puoi chiedere all’universo tutti i segni che vuoi, ma alla fine vedi solo quello che vuoi vedere,
quando sei pronto a vederlo.” (Ted Mosby)
E inauguriamo così, con una citazione da “How I met your mother” per introdurre la nostra rubrica #zapping, per scoprire le serie tv con i consigli e le recensioni di Liliana Passiatore. (n.d.r.)

In questo mio primo articolo per “AgorArt”, voglio raccontarvi – per citare l’incipit della serie in questione – una storia incredibile. La storia di come ho conosciuto “How I met your mother”. La mia vita scorreva “tranquilla” tra una versione di greco e gli allenamenti in piscina quando, nel lontano 2011, in un raro momento di riposo, lo zapping quotidiano mi portò su Italia 1. Ero tristemente sorpresa di non vedere sullo schermo le immagini dei Simpson, ma, nonostante ciò, qualcosa mi portò a non cambiare canale.

Ad attirare la mia attenzione fu il titolo che, pur essendo apparentemente chiaro, diede il via nella mia mente ad una sfilza di strampalate interpretazioni e previsioni (chiaramente molto distanti dalla realtà) sul possibile oggetto della serie. Tutto questo viaggio interiore, quando avevo letto solo il titolo. Non avevo ancora idea di cosa sarebbe successo un bel po’ di anni dopo. Ma a questo ci arriveremo più tardi.

Decisi di guardare quella puntata, isolata e scollegata dal contesto, lontana dalla consapevolezza della trama, che si può acquisire solo guardando una serie dal primo episodio della prima stagione. In quel periodo, a sedici anni, ero questo tipo di spettatrice, la spettatrice sporadica. Un po’ per la mancanza di tempo, un po’ per la poca diffusione delle piattaforme di streaming online, che consentono di organizzare i tempi e le modalità di visione (perché sì, iniziare una sitcom richiede impegno e organizzazione), un po’ per la frequente tendenza di Italia 1 a mandare gli episodi di molte serie e cartoni animati in ordine non cronologico e confusionario (tra i tanti basti pensare a “One Piece”, ma quella è un’altra storia).

Fatto sta che la puntata mi piacque. Simpatica, leggera, quello di cui si ha bisogno per staccare e distendersi. E così per anni, senza impegno, quando capitava, guardavo un episodio ogni tanto. Arriviamo al 2020, a due mesi prima del lockdown, per la precisione. Su consiglio di una sedicenne cresciuta a pane e Netflix, mia sorella, decido finalmente di iniziare a vedere “How I met your mother” dal primo episodio in ordine tassativamente cronologico. Quattro giorni dopo avevo già finito la prima stagione.

La guardavo ovunque. Sullo step in palestra, in macchina (quando ero al posto del passeggero e non guidavo, sia chiaro), in pullman, sul divano con Civins (lui già al terzo rewatch). Più le puntate scorrevano e più mi affezionavo alla storia di quel gruppo di cinque amici a New York raccontata nel 2030 da Ted, uno dei protagonisti, ai due figli, con l’espediente narrativo di fargli conoscere la storia di come il destino e le circostanze lo avevano portato ad incontrare la loro mamma.

Non solo spensierata leggerezza, come avevo erroneamente diagnosticato anni prima, ma anche spiccata profondità e accurata indagine dell’Io.
Come è possibile combinare tali fattori?
“How I met your mother” ce la fa e, forse, è proprio questo uno dei suoi punti di forza.

Altra caratteristica vincente della serie è la sorprendente capacità di racchiudere in 9 stagioni, in 208 episodi, circostanze e percorsi di vita in cui ciascuno spettatore può immedesimarsi. Certo, come in ogni sitcom che si rispetti, le situazioni sono estremizzate, ma, se ripulite dai tratti caricaturali, rappresentano appieno lo specchio di una generazione.

Chiunque, almeno una volta, guardando un episodio di “How I met your mother” avrà pensato:
“Ehi, ma questi sembriamo io e te quando…”
Ognuno di noi almeno una volta è stato tenace e sognatore come Ted; spensierato, ma profondo
come Barney; genuino e dolce come Marshall; forte e diretto come Lily; indipendente come Robin.
Lily e Marshall (tra di loro Lilypad & Marshmallow) sono, a mio avviso, il reale motore della storia,
la rappresentazione dell’amore vero e profondo, i punti di riferimento costanti di Ted. Ed è per tale motivo che probabilmente quest’ultimo non riesce a trovare facilmente una donna: le sue aspettative si sono alzate anno dopo anno, perché sogna di avere al suo fianco una persona da amare come Marshall ama Lily e di essere amato come Lily ama Marshall. La forza del sentimento che li unisce, la loro comicità, la loro complicità, il loro essere migliori amici profondamente innamorati l’uno dell’altro, fa sì che appaiano come figure rassicuranti per Ted, Barney e Robin, che cercano e trovano sempre in loro supporto e sostegno per superare e gestire i propri problemi.

Il finale: la corsa continua dell’uomo tra dimensione onirica e fatalismo
Per concludere, voglio dedicare un breve paragrafo (contenente SPOILER, quindi se non avete visto “How I met your mother” vi consiglio di non proseguire nella lettura) alla questione più controversa relativa alla serie in questione: il finale.

La conclusione della storia ha infiammato gli animi dividendo i fan. Io ho attraversato varie fasi subito dopo aver terminato la visione dell’ultimo episodio. In un primo momento mi ha pervaso un forte senso di nostalgia. Tanto mi ero affezionata ai cinque protagonisti che mi sembrava di aver detto addio ad un gruppo di amici di vecchia data.

Subito dopo ho iniziato ad essere perplessa: ma come è possibile stravolgere nove anni di vicende in soli 40 minuti (divisi nel doppio episodio finale)? E poi non mi rassegnavo alla scelta di dividere la coppia formata da Barney e Robin (dopo l’intera nona stagione dedicata al loro LEGEN…DARIO matrimonio) e di ricongiungere quella formata da quest’ultima e Ted. E ancora non mi spiegavo la morte di Tracy, la mamma dei figli di Ted, colei che, in quel momento di poca lucidità, appariva al mio Io ferito l’intero fulcro della vicenda.

Nell’ultima fase, quella della lucidità, tutto mi è stato improvvisamente chiaro. Ad avermi deluso, in realtà, non è stato ciò che gli autori hanno fatto succedere, ma come lo hanno fatto succedere. La frettolosità del finale e le molte scene tagliate hanno creato buchi di trama e connessioni banali tra gli avvenimenti conclusivi che, se ben sviluppati, avrebbero acquisito un senso nell’immediato. E, invece, per apprezzare il finale di “How I met your mother”, serve un po’ di tempo e di riflessione.

Ed è così che sono giunta alla conclusione che l’epilogo è giusto perché in linea con la filosofia della serie: una visione circolare della vita, la corsa continua dell’uomo tra dimensione onirica e fatalismo. Tutto finisce così come è iniziato, guidato da un motore invisibile. Non esistono persone giuste e persone sbagliate, esistono momenti giusti e momenti sbagliati, finali felici (come per Lily e Marshall e per Ted e Robin) e felicità mancata per un soffio (come per Barney e Robin e per Ted e Tracy).

Tutto ha un senso e una fine non cancella un percorso: l’ombrello giallo che Ted ha incontrato per la strada che lo ha portato verso il corno blu francese rimarrà per sempre parte di lui.

“Ciao, sono Ted Mosby, e tra quarantacinque giorni esatti noi c’incontreremo. E c’innamoreremo. Poi ci sposeremo e avremo due bambini. Ci ameremo molto, per tutta la vita. Però fra quarantacinque giorni. Se ora sono qui è solo perché voglio…voglio questi quarantacinque giorni, io voglio viverli tutti con te. O mi prenderò questi quarantacinque secondi prima che arrivi il tuo fidanzato a darmi un cazzotto, perché io…io ti amo, e lo farò per sempre. Fino alla fine dei giorni e oltre. Vedrai!” (Ted Mosby)

Liliana Passiatore